A una cittadina marocchina, legalmente e continuativamente soggiornante in Italia da oltre cinque anni con permesso di soggiorno per motivi familiari (ricongiungimento a marito), madre di tre figli nati nel paese (anch’essi muniti di permesso di soggiorno), si negava l’assegno ai nuclei familiari e a quello di maternità a causa del mancato possesso del Permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo (di seguito Permesso UE). La signora ricorreva in giudizio contro l’INPS per accertare il proprio diritto alle provvidenze.
In data 13.12.2016, il Tribunale ordinario sollevava di fronte alla Consulta questioni di legittimità costituzionale sugli artt. 65, co. 1, L. 448/1998 e 74, co. 1, Dlgs 151/2001, ove limitano ai soli stranieri dotati di Permesso UE l’accesso agli assegni. Il giudice indicava come nel caso di specie il titolo di soggiorno fosse l’unico ostacolo all’accoglimento della domanda e di non poter disapplicare la legge in via interpretativa, in quanto pretende chiaramente il Permesso UE. Il rimettente dichiarava la normativa in contrasto con l’art. 3 Cost., laddove attua un’ingiustificata disparità di trattamento tra cittadini italiani e stranieri legalmente soggiornanti nel paese nel chiedere soltanto ai secondi un requisito ulteriore per il godimento del diritto. Giudicava, altresì, le norme irragionevoli in quanto subordinano la ricezione degli assegni al possesso di un permesso, per ottenere il quale è necessario un reddito minimo. Infine, denunciava il contrasto con gli att. 10, sec. co., 38 Cost. e 14 CEDU, che vietano le discriminazioni basate sull’origine nazionale, nonchè le limitazioni dei diritti per il tramite di adempimenti amministrativi eccessivi.
La Corte Costituzionale (ordinanza 15.3.2019) ritiene le argomentazioni del Tribunale insufficienti ad ammettere la questione di legittimità, poiché basate su una ricostruzione incompleta del quadro normativo, riferibile genericamente a sole norme di principio o impropriamente alla normativa europea sullo status dei cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo, non riferibile al caso in esame, considerato che la signora è sprovvista di detto status.
Al contrario, il rimettente non ha richiamato la Dir. 2011/98/UE (artt. 3 e 12), relativa alla procedura di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente ai cittadini di paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro. Essa riconosce comuni diritti per i lavoratori di paesi terzi che soggiornano regolarmente negli Stati membri, in particolare, prevede per determinate categorie, il diritto alla parità di trattamento in materia di sicurezza sociale con i cittadini dello Stato membro in cui soggiornano.
La direttiva si applica anche ai cittadini di paesi terzi che sono stati ammessi in uno Stato membro per finalità diverse dall’attività lavorativa a norma del diritto comunitario o nazionale, in possesso di un normale permesso di soggiorno e ai quali è comunque consentito lavorare (esattamente come nel caso della signora). Il titolo già posseduto dalla mamma dei tre figli, dunque, rientra tra i beneficiari individuati dalla direttiva, posto che il permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare non preclude di lavorare in Italia. Quanto alla individuazione degli ambiti della sicurezza sociale a cui si applica il principio di parità di trattamento, la suddetta direttiva include espressamente le prestazioni di maternità e le prestazioni familiari.
In definitiva, la Corte anticipa in via teorica una probabile futura pronuncia di illegittimità sulla normativa analizzata, se solo un giudice in un caso analogo prendesse in esame la normativa corretta.